ANTI CAPITALISMO E UMANITA' IN UNA POESIA ESPRESSIVA
Un brutale e anaffettivo esattore di debiti, Lee Gang-Do (Lee Jung-Jin), vive e lavora con distaccato nichilismo e sanguinaria violenza tra le vie industriali di una periferia metropolitana fatiscente e misera. Il denaro è al centro della vita di tutti e gli strozzini la fanno da padrone, chiedendo il 1000 per cento di interesse e mutilando i cattivi pagatori per mano dei loro scagnozzi. Il popolo è inerme e non raramente sceglie di togliersi la vita. Gang-Do non si fa mai condizionare e continua il suo lavoro con fredda determinazione e spietata lucidità, fino a che un giorno si presenta alla sua porta una donna, Jang Mi-Seon (Jo Mi-Soo), che sostiene di essere sua madre. Pregandolo di perdonarla per averlo abbandonato appena dopo il parto per paura giovanile, la donna continua a seguirlo, gli procura il cibo e gli rassetta casa e, malgrado la feroce aggressività di Gang-Do, che si scatena anche su di lei in più occasioni, continua ad accompagnarlo e scusarsi con lui fino a convincerlo. Il rapporto si consolida fino a che la paura della vendetta da parte di alcune delle sue vittime , si innesta nell’ animo del giovane e la donna, rendendosene conto, scatena tutta la sua violenza materna e rivelandosi la madre non sua ma di una delle sue vittime lo porterà alla conoscenza del sentimento della pietà e dell’ abbandono e quindi all’ autodistruzione.
“Pietà” è una
pellicola di forte impatto espressivo, si
inserisce perfettamente nello stile del regista Kim ki-Duk e va a
rintracciare con lucida introspezione il sentimento amoroso materno, la
vendetta, la pietà e la paura, veicolandoli nelle espressioni e
nelle lacrime dei due protagonisti, che sono seguiti costantemente da una
telecamera che si tuffa nel quotidiano più intimo dei personaggi , mostrando il
nucleo emotivo più profondo dei protagonisti.
Il regista riflette sul senso di colpa, sulla crudeltà senza limiti del
mondo di oggi, sull’ importanza del denaro che crea questa brutalità, sulla
vendetta come unica logica conosciuta e su un amore materno che sfocia nella
conoscenza di uno dei sentimenti più umani: la pietà (titolo del film e
locandina che rappresenta “La Pietà” di
Michelangelo). Siamo di fronte ad un
film anti capitalista e che in più occasioni riflette sulla nullità e pochezza
del denaro, il quale è nascita e morte
di tutti i dissidi umani, che rende brutali e miopi, allontanando dall’ umanità
e dai sentimenti elementari, quell’ emotività originaria che nel film coincide
con la riscoperta della prima affettività materna. Tecnicamente e stilisticamente la pellicola appartiene alla tendenza formale del regista coreano.
Il dialogo viene sostituito in più occasioni dalle azioni con inquadrature semi soggettive e neutre sulle espressioni dei protagonisti che
spesso risultano più eloquenti di molte parole. La scenografia è articolata e
complessa , ritraendo un quartiere
desolato e industriale e lo fa con accurata precisione. Un ambiente che viene
esaltato da una fotografia meravigliosa e una messinscena geniale che rende
elegante e naturalmente armonica e raffinata
ogni scena come nel quadro di un
artista. I colori sono cupi e sbiaditi come nell’ ambiente circostante e nell’
intimità dei personaggi, crescendo d’ intensità e gradazione con il tempo
narrativo. L’ eleganza formale del regista coreano è inalterata e
si mostra in
una delle sue migliori vesti lungo ogni inquadratura ed ogni scena ma la
sceneggiatura è a tratti meccanica e troppo statica e non aiuta la marcata e
puntuale espressività sentimentale dei protagonisti, trasmettendo sempre della
freddezza e apatia sceneggiativa . Un distacco costante per cui lo spettatore
non riesce a farsi trasportare naturalmente dall’ intreccio e dalla narrazione
(com’era capitato in altri film di Kim Ki-Duk), forse a causa dell’ eccessiva
violenza di alcune scene, che arrivano a riprendere anche uno stupro e
quindi, per questo limite, creano una naturale barriera tra la storia e
lo spettatore che per timore o inquietudine si allontana dall’ assorbimento narrativo
e artistico. I personaggi sono tipici dello stile del regista e appaiono monocordi e uniformi . Essi veicolano emozioni e sentimenti flebili e complessi,
che grazie ad ottime interpretazioni, dalle quali spicca quella di Jo Min-Soo,
che nei panni della madre addolorata e salvatrice realizza un’ ottima
performance, riescono a mostrare grande profondità espressiva.
Leone d’ Oro alla 69^ Mostra del Cinema di Venezia e grande
ritorno di uno dei migliori registi contemporanei. Se pur con delle sbavature
sceneggiative, siamo di fronte ad una pellicola di ottimo livello che ha nell’
organizzazione formale ed espressiva della scena la sua più grande arma, grazie
alla sua raffinatezza estetica ed eleganza artistica, espressa con enorme
fluidità e armonia, senza forzature e
irregolarità. Un grande ritorno del genio coreano che pone un rinnovato sguardo alla società e alle
contraddizioni profonde dell’ animo umano, osservandolo dall’ interno con
spietata ma profonda lucidità.
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