venerdì 12 ottobre 2012

"On the road" di Walter Selles


                                                       voto: **               (USA-2012)

La generazione dei ventenni del secondo dopo guerra americano  nelle zone di New York è il fulcro di un enorme fremito  intellettuale ed evasione emotiva, che sperimenta nuovi stili di vita e ricerche spasmodiche di realtà anticonvenzionali e antitradizionali. La letteratura è centrale in questo ambiente che si rivela coacervo di slanci artistici e ricerca formale e poetica. Lo scrittore Sal Paradise (Sam Riley), pseudonimo di Jack Kerouac, l’ autore del romanzo su cui si basa l’ intero film, assorbe da questo ambiente influenze e tendenze, riscoprendo profonde amicizie, amori estremi e ispirazioni poetiche. Il giovane e ambizioso scrittore conosce Dean Moriarty (Hedlund), personaggio che si ispira al poeta Neal Cassady, compagno di viaggio di Kerouac. Fra i due si instaura subito una grande complicità che li porterà a viaggiare in continuazione per tutto il territorio statunitense e oltre:  da New York (luogo in cui fanno conoscenza) a Denver, dall’ Alabama alla California, da San Francisco a Città del Messico. Viaggi vissuti dai due alla fine degli anni ’40 e che porteranno il giovane Paradise a scrivere, recuperando  i vari appunti da viaggio conservati durante gli anni, “On the road”, romanzo autobiografico , scritto in tre settimane su un rotolo di carta da tappezzeria lungo 36 mm, divenuto il manifesto culturale della cultura “Beat” americana, la cosiddetta “Beat Generation”.
Per trasformare in immagine un libro impossibile, il regista Walter Selles (autore anche dell’ indimenticabile “I diari della motocicletta”)  ha lavorato 8 anni e percorso più di 100 mila chilometri. Per non far annoverare il suo progetto come chimera, come successe già nel 1957 (quando i si cercò di realizzare una pellicola basata sul romanzo, coinvolgendo grandi star come Marlon Brando), Selles segue la stessa logica sperimentale dei film su Guevara, partendo dalle tracce di Kerouac, sfiorando luoghi e persone che in qualche modo abbiano potuto riguardarlo, con uno sguardo prima documentaristico e poi narrativo. E ed è questo approccio che non esalta il ritmo dell’ intera opera. Realizzare un film sulla Bibbia della “Beat Generation”, un racconto di viaggio che rappresenta anche rivolta generazionale e formazione giovanile è probabilmente uno sforzo che il Cinema, in quanto mezzo artistico e linguistico, sia per limiti temporali che formali, non può soddisfare completamente  ma, tuttavia, un’ organizzazione sceneggiativa prolissa e monocorde come questa non può sicuramente ambire a invertire questa difficoltà, anche parzialmente. La scenografia e le ambientazioni, insieme all’ attenzione caratteriale ai  protagonisti e ai vari personaggi, mostrano        
un enorme lavoro strutturale ma che soddisfa solo minimamente uno spettatore assorbito sempre meno da un’ intreccio troppo dilatato, nauseante per la propria monotonia  che cerca di inglobare più avvenimenti possibili in 120’ di film purtroppo soporifero. Gli unici sbalzi narrativi   sono nelle scene  sessuali che si rincorrono sempre con un velo però  di censura e poca corporeità espressiva. Buono il parallelismo musicale che segue l’ immagine in modo armonico fin dall’ inizio con ottime colonne sonore jazz intriganti e avvolgenti e buona anche l’ attenzione ai particolari scenografici sia d’ interni che esterni, evidenziati da un uso della luce consapevole e puntuale.
Il Cinema negli ultimi anni si è approcciato al ricordo “Beat”  in almeno due casi: quest’ ultimo “On the road”  che ricalca il romanzo manifesto di quella generazione e “Howl” (“L’ urlo”) di Epstein e Friedman, film del 2010 che ripercorre il capolavoro di Allen Ginsberg. Seppur in modo diverso,  le due pellicole mostrano le difficoltà strutturali che si nascondono dietro alla narrazione cinematografica innanzitutto di un’ opera letteraria e secondariamente di opera  letteraria  che, come in questi  casi, è  manifesto generazionale di un’ intera identità  culturale. E in entrambi i casi l’ eccessiva complessità realizzativa, malgrado i buoni autori e attori utilizzati, ha messo a nudo  le enormi difficoltà espressive  che la riguardano. 

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